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Giorgio Bocca (Cuneo 18 Ago 1920 - Milano 25 Dic 2011)

"Grazie, NO!"
Indignatevi! - Il testamento contro il pensiero unico
L' antitaliano alza la voce fino all' ultimo, e nel libro che uscira' postumo per Feltrinelli l' 11 gennaio, "Grazie, NO!" protesta contro le scorciatoie del pensiero unico, a cui a suo avviso bisogna rispondere con un secco diniego.
"La gente oggi e' piu' ricca ma e' peggiorata culturalmente e intellettualmente" dice nella video-intervista che accompagna la scheda del volume.
E ancora: "E' una crisi di cui nessuno sa niente, nessuno sa quando e' cominciata e come finira'. Mai nella storia dell' umanita' si era arrivati ad una oscurita' di questo genere".
Poi contro "Il consumismo dominante: bisognera' moltiplicare i consumi, gli investimenti, in una corsa senza fine. La produzione e' piu' importante della vita dell'uomo".
Infine contro "I tipi alla Marchionne che credono di dire cose intelligenti mentre dicono delle banalità".
Bocca ci lascia quindi un pamphlet contro chi si e' assuefatto all'Italia di oggi, dove cose che dovrebbero farci indignare passano sotto silenzio, discorsi che non si dovrebbero sopportare sono ormai moneta corrente, idee come minimo discutibili sono invece comunemente accettate.
Ed elenca sette punti a cui ribellarsi, sui quali indignarsi. Sono: La crescita folle; La produttivita', il nuovo dio; La lingua impura; Il dominio della finanza; La corruzione generale; La fine del giornalismo; L'Italia senza speranza.
E se e' ormai quasi un' abitudine anche l' indignazione, anche il cinico e soddisfatto luogo comune secondo cui l' Italia e' ormai perduta, vittima delle sue ataviche tare e dei suoi vizi inestirpabili, Bocca ci ricorda, con l' autorita' del testimone e la vividezza del grande cronista, che gia' altre volte (ultima la guerra partigiana, cosi' vicina e cosi' preziosa) l' Italia fu sul punto di soccombere, ma gli italiani hanno saputo trovare in loro stessi la forza di salvarsi.
Diranno che la Resistenza è inventata
Da ex azionista, posso dire che certe revisioni storiche cominciano a darmi un grande fastidio?
(22 marzo 1996)
Apro i giornali e scopro che la storia che ho vissuto, che ho conosciuto, che ho studiato non è mai avvenuta, o è avvenuta in un modo completamente diverso. Non c'è stato il genocidio degli ebrei; la tribù cosacca che ha terrorizzato la Carnia negli anni dell'occupazione tedesca era in realtà una compagnia di filantropi guidati da valorosi aristocratici; Mussolini non lo hanno ucciso i partigiani, ma gli inglesi; i fascisti morti nei giorni dell'insurrezione non sono stati duemila ma centomila... Ma a parte il revisionismo più assurdo, a parte le invenzioni propagandistiche o fantastiche della storiografia neofascista di bassa lega, anche da parte di studiosi di grande intelligenza come il professor Ernesto Galli della Loggia c'è la tendenza a comprendere la storia più che a conoscerla, a farla entrare per amore o per forza dentro schemi ideologici a posteriori. In un saggio sull'8 settembre del 1943 e sulla Resistenza, il professore sostiene che il giorno in cui il paese trovò la forza di separarsi dall'alleanza con i nazisti morì la nazione, e che la Resistenza fu una casuale combinazione. Ora, ognuno è libero di sostenere le tesi più audaci e di sbalordire come crede i filistei dell'antifascismo; ma conoscendo la storia prima di comprenderla. La tesi che «non si sarebbe sparato un colpo» se Mussolini non avesse fondato la Repubblica di Salò è, insieme, falsa e curiosa. Falsa perché i primi scontri a fuoco con i tedeschi avvennero a Torino, a Milano, a Roma prima che Benito Mussolini fondasse la sua repubblica, perché almeno cento gruppi partigiani salirono in montagna prima; poco attendibile perché la guerra civile, cioè lo scontro militare fra partigiani e fascisti, fu secondaria rispetto a quella con i tedeschi, senza i quali non ci sarebbero stati né i grandi rastrellamenti né vere e proprie battaglie campali. La tesi è curiosa, poi, perché non si capisce che senso abbia quel «se Mussolini...»: un governo collaborazionista doveva esserci necessariamente, come ci fu in tutti o quasi i paesi occupati, dovunque ci fossero dei fascisti o dei paranazisti. L'8 settembre morì la Nazione? A noi pare che sia morto un regime, e che la nazione abbia continuato la sua storia di paese lungo: diviso eppure di antichissima unità religiosa, linguistica, urbanistica, alimentare. La Resistenza al professore non piace perché egli ha scarsissima simpatia per gli azionisti, che in essa, dice, lasciarono il loro segno elitario, il loro disprezzo per le masse, la loro «italianità». L'azionismo deve moltissimo ai suoi detrattori cattolici e marxisti: grazie a loro è diventato una sorta di potenza intellettuale immanente, determinante. Noi che vi abbiamo partecipato, però, non ci riconosciamo. A noi sembra di ricordare che Ferruccio Parri venne licenziato dopo pochi mesi da cattolici e comunisti. E che i concittadini ci eliminarono alla prima consultazione elettorale. Ma secondo il professore questa Resistenza che si portava in seno il veleno azionista fece anche gli errori di essere antimonarchica, nonché succube degli alleati anglo-americani. A noi pare di aver letto che sin dall'autunno 1943 gli azionisti Parri e Leo Valiani avevano detto chiaro e netto ad Allen Dulles, proconsole americano, che noi avremmo fatto la nostra guerra, cioè anche la nostra rivoluzione democratica, e non semplicemente gli ausiliari. Sapevamo benissimo che la guerra stavano vincendola gli anglo-americani e che l'Italia sarebbe rimasta nella loro zona di influenza, ma facevamo la nostra guerra; e quando il maresciallo Alexander nell'autunno del 1944 ci mandò il consiglio-ordine di tornare temporaneamente a casa, non ci tornammo. Gli italiani, e il professore lo ha colto bene in uno dei suoi ottimi scritti, non amano la loro storia, trovano sempre una ragione per chiuderla in un cassetto o per disprezzarla. Ma pare che, a volte, anche il professore si accodi a questa moda. A noi le revisioni storiche della Resistenza cominciano a dare un grande fastidio. Ma sì, facciamola finita, diciamo che non c'è mai stata o che l'hanno inventata i comunisti. E che il giorno in cui nasceva, l'8 settembre del 1943 moriva la nazione. La quale invece, se ne deve dedurre, durante il fascismo era esistita.
Pessimista io? Sì, ecco perché
Nella vita mi è andata bene e sono un vecchio che sta in piedi. Ma se guardo il mondo oggi, e la strada che ha preso il genere umano, non riesco proprio a vedere segni di speranza
(06 ottobre 2011)
Dovrei essere un ottimista di ferro. Mi è andata bene nella vita, nel lavoro, nella salute. Sono un vecchio che si tiene ancora insieme anche se la vecchiaia è una fatica continua. E allora come mai sono pessimista? Lo sono sulle sorti dell'umano genere, non sulle mie, scampato ad avversità e guerre. All'umano genere le cose non vanno proprio bene. Non abbiamo mai avuto il controllo sulla natura, cui rivolgiamo lodi sperticate mentre lei ci ignora e colpisce ferocemente se le fa comodo. E sì che ne abbiamo prove quotidiane. A nord di Milano, per esempio, c'è un fiumiciattolo di nome Seveso, un rigagnolo fetido e non navigabile, ma basta un temporale per fargli allargare interi rioni della metropoli ricca e superba, signora delle tecniche del denaro. Dico il Seveso, ma il traffico urbano fra Milano e Monza in alcune ore del giorno è già ingorgo, asfissia, un inestricabile caos di lavori in corso, strade interrotte, deviazioni, vicoli ciechi in cui ti coglie l'angoscia del labirinto. Chi si avventura in questa anti-città deve procedere a passo d'uomo fra continui divieti, andirivieni, salti di corsia, scavi, buche, calcinacci, sussulti, frenate, urli, fumi fetidi. Ormai l'arrivo a casa è come l'arrivo in un porto da una tempesta, sollievo ma anche fatica di vivere. Ma c'è davvero rimedio al disordine, c'è davvero un modo per evitare il ritorno alle tirannie della politica come della tecnica, delle mode, delle impreviste follie collettive, del movimento senza meta e senza ragione che Anna Maria Ortese vedeva ogni giorno a Napoli? Sei un pessimista, dicono. E' vero, ma come non esserlo? Solo 80 anni fa Roosevelt propose agli americani un New Deal, un nuovo patto sociale, un nuovo modo di produrre e di correggere gli errori del capitalismo. Qualcuno lo definì il "capitalismo generoso". E dopo la seconda guerra mondiale un altro americano propose il piano Marshall per salvare l'economia europea e quella mondiale, sfidando quella sovietica dei piani quinquennali. Oggi l'economia americana è sprofondata in una crisi profonda di cui nessuno conosce le origini e il modo di uscirne, mentre nella Russia di Putin torna una miseria nera. Non abbiamo un controllo demografico, la popolazione del mondo sta andando verso sette e più miliardi, che per mantenerli occorrerebbero non una ma quattro terre. Non sembra controllabile neppure la malvagità della "scimmia assassina", le cronache sono piene di delitti assurdi come quello recente di Milano dove uno cui due motociclisti avevano graffiato l'automobile li ha rincorsi armato di una catena e li ha lasciati in fin di vita. E i passanti interrogati dai cronisti ripetono: "Sembrava una persona così tranquilla, non alzava mai la voce". Ma la catena sì, e ha tentato di uccidere due giovani in un raptus diabolico che può succedere a tutti. E la politica: a quale lotta demenziale e spesso mediocre si è ridotta la lotta per il potere? Ha scritto Sergio Romano: "La democrazia, il governo di tutti era possibile forse nella polis, dove tutti potevano partecipare ai comizi nel foro. Ma oggi come è possibile fare politica democratica, come è possibile far politica assieme in modo specifico con le distanze enormi e le telecomunicazioni ingannevoli e insufficienti?". Scoppiano guerre e rivoluzioni come quelle dei paesi arabi, di cui tutti parlano senza avere un'idea, se non precisa, approssimativa, di che si tratta. I contendenti in un campo vengono definiti insorti o lealisti ma hanno in comune le storie dei loro crimini e se gli uni siano veramente migliori degli altri è ancora incerto. In Libia gli insorti scoprono le fosse comuni dove giacciono centinaia di vittime di Gheddafi, ma a Tripoli conquistata dai ribelli le persecuzioni dei seguaci di Gheddafi sono in corso, e il premier italiano, il pacifico Silvio, non si è mai accorto che il rais era un tiranno. Dalla Russia arriva la notizia che Putin ha dichiarato morta la democrazia: ha prenotato il Cremlino per i prossimi cinquant'anni. C'è da essere ottimisti?
Il bel paese dov'è difficile vivere
I vescovi ci invitano ad avere speranza. Ma l'impressione generale è che sia troppo tardi per venir fuori dalla palude. Manca infatti una volontà diffusa di cambiare. E si confida troppo nello "stellone" per uscire dai guai
(28 ottobre 2011)
Dicono che bisogna credere nel futuro, in un futuro diverso, migliore di questo presente, di questa marmellata di cose, oggetti, bisogni fra cui strisciamo. Non c'è neppure odio per le generazioni che ci hanno condotto in questa palude. Certo hanno mal governato il paese, lo hanno compromesso, hanno lasciato crescere la malavita, hanno dato ai cittadini un'unica morale, un'unica aspettativa: rubare allo Stato dove si può, finché si può. Che altro vogliono dire i vescovi quando lamentano la mancanza di etica della nostra società, la mancanza di buone regole, di buoni comportamenti? L'impressione generale, scoraggiante, paralizzante è che sia troppo tardi per venirne fuori, le complicità sono troppe, le malversazioni di massa soffocanti, le occasioni di riscatto rare: non c'è un prevedibile 25 luglio per l'arresto del tiranno, non c'è un 8 settembre per l'inizio della guerra partigiana, non c'è un'occupazione straniera di cui liberarsi. Sono le grandi dimensioni dei nostri attuali vizi, delle nostre pigrizie, delle nostre cattive abitudini a imprigionarci. Questa volta i "mille" del coraggio e dell'avventura sembrano scomparsi. Ogni sera gli italiani che ancora desiderano vivere in una libera democrazia si chiedono quanto durerà questo decadimento, questa resa al peggio, e se questa rinascita è realmente possibile o un vano desiderio che si rinnova di generazione in generazione. Il capo della polizia borbonica non accoglieva a Napoli il liberatore Garibaldi per disarmarlo, non consegnava la guida dell'ordine pubblico ai capi della camorra? Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa non è l'eterna vittoria dei reazionari? Nella mia vita ho visto cadere alcuni regimi autoritari, a cominciare da quello fascista, quasi sempre per autodistruzione. Le sedi dei partiti restavano aperte ma vuote, gli iscritti buttavano via le tessere e i distintivi, ritornavano i vecchi partiti guidati dai revenant, dai politici di ritorno. Ci risiamo? Ogni sera agli italiani si chiedono quando avverrà, come andrà a finire. Che fare? Mandare in galera tutti i ladri? Si organizzerebbero subito come il partito più forte del paese e comunque le prigioni non basterebbero. Fare l'ennesima rivoluzione gattopardesca, cambiare tutto perché nulla cambi? L'ennesima rivoluzione per finta, con i furbi e i ladri lesti a tornare al potere? Sono i grandi numeri, le grandi dimensioni di questa società a impedire che cambi veramente. Nei primi anni della repubblica un giornalista napoletano di nome Guglielmo Giannini inventò "l'uomo qualunque" un movimento insensato, nemico della politica ma con la pretesa di fare la migliore delle politiche. Arrivò a vendere 700 mila copie e fu ucciso dal suo successo senza sbocco: non aveva un progetto fattibile, scomparve senza lasciare traccia se non nella sua inconsistenza, nella sua volgare utopia. Il difetto vero degli italiani lo aveva colto Leopardi quando denunciava la mancanza di un'opinione pubblica capace di una scelta etica. L'ultima illusione è stata quella della guerra partigiana: guerra di popolo per la libertà e la giustizia che diede al paese un forte impulso riformatore, durato mezzo secolo, una volontà di diventare finalmente un paese democratico. Quest'ultima illusione sembra davvero consumata. Il paese è bello, ricco di beni naturali, ma è molto difficile viverci per l'anarchia di chi ci abita. Per l'illusione costante di poter migliorare la società senza disciplina e senza sacrifici, per l'idea assurda che esista uno "stellone", una garanzia di fortuna che spontaneamente risolve i problemi del paese.
Silvio come l'ho conosciuto io
Vuole sembrare un capo buono. Ma deve essere sempre lui a comandare. E accetta tutti gli atti di sottomissione scambiandoli per qualcosa di dovuto al suo ego. Che non sopporta nemmeno i guasti del tempo. Come la calvizie
(17 novembre 2011)
"Nulla è più turpe di una calvizie cappelluta", Marziale ha ragione. Il mistero di Berlusconi: come può un uomo intelligente sopra i 70 vergognarsi della normale calvizie e ricorrere alle ridicole simulazioni capellute con vernici nerastre? Credo che sia dovuto al virilismo del nostro, che vuol comandare anche ai guasti del tempo. Lo si capisce dalle fotografie del 1977 apparse tempo fa qui sull'"Espresso". Il nostro ha una chioma da paggio Fernando, fluente e morbida, ma a guardar bene sulla fronte si vede già la lanugine di una calvizie incipiente. Quel segnale deve essere stato il suo tormento di bellastro. L'insieme era quello di un uomo gelido e sospettoso nella sua apparente dolcezza, femmineo, smanioso di convincere tutti che lui con le donne faceva sfracelli. Fotografie che rivelano le ambizioni da megalomane, che per me resta definito da quella telefonata mattutina in cui mi disse: "Caro Bocca sono qui sulla punta dei piedi per vincere il mio complesso d'inferiorità". Nei giorni precedenti in un'intervista avevo per l'appunto detto che era perseguitato da un complesso d'inferiorità per gli intellettuali. Ci sono personaggi compatti nelle loro virtù e nei loro difetti, malvagi o buoni dalla testa ai piedi. E quelli double face, metà buoni e metà cattivi, metà generosi e metà avidi che ti sorprendono di continuo e di cui tutti parlano per come sono indecifrabili. Chi è Berlusconi? Quando lo conobbi eravamo nella direzione della sua azienda televisiva. C'era il suo amico da una vita Fedele Confalonieri, se si può più misterioso e indecifrabile di lui. Perché Confalonieri era l'amico del cuore, il consigliere fidatissimo del nostro? Che cosa hanno in comune, perché uno ha legato la sua vita all'altro? Credo che non lo sappiano ancora e attribuiscano il fatto a un'incontrastabile magia. Quel giorno del primo incontro Confalonieri, a me che gli confidavo le mie preoccupazioni per il rapporto professionale con Silvio, disse serio: "Non preoccuparti, fra voi c'è il feeling". Apparentemente c'era una possibilità di convivenza, e magari di simpatia, ma immersa in un mare di diversità inconciliabili. Silvio era ed è un animale da preda, io un cuore tenero pronto ai cedimenti. Il nostro rapporto non sarebbe stato facile, lo capii una sera che ci fu una presentazione dei programmi. Silvio arrivò con le sue segretarie che gli trovarono il posto migliore, le luci migliori, attenuandole con una calza di seta. E lui si accomodava in quei favori come naturali, come dovuti alla sua superiorità di padrone. Non cattivo, non villano ma inesorabilmente prepotente e padrone del nostro rapporto, questo mi fece capire che tutto ciò che di buono avrei fatto lì dentro si sarebbe trasformato in un suo merito. Come se fossimo arrivati all'incontro da due pianeti diversi. Comunicanti ma diversi. Chi può dire di essere veramente amico di Berlusconi? Tutti rispondono subito: Confalonieri, da una vita, ma non credo che sia proprio così, credo che in Confalonieri ci sia piuttosto affettuosa rassegnazione a lavorare per il più forte. Berlusconi è un personaggio preoccupante più che ammirevole o temibile. Attaccato al suo enorme ego può trovare in una crisi politica la forza per sfidare il mondo. Ma per cosa? Per affermare la sua mediocrità, la sua mancanza di stile, di gusto? Basta vedere il suo sepolcro, le sculture nel parco per celebrare l'unione dei fedeli. Anche quando si fa fotografare con i figli c'è sempre qualcosa di falso, vuole sempre dimostrare che è il padrone buono, il padre buono, il risolutore di ogni problema; e come alimentare un egoismo enorme volendo apparire mansueto e generoso? E' la fatica della sua vita, da ciò non è stato ucciso ma si è ridotto a fantoccio di se stesso. Tutti gli uomini politici impiegano gran parte del loro tempo pubblico a sistemarsi la cravatta e la giacca, a sorvegliare il loro modo di camminare, ma in lui questa attenzione è scoperta e ridicola, vien voglia di soccorrerlo, povero Silvio. Così è andato a salutare il picchetto d'onore passandolo in rivista con le sue gambette storte da calciatore di periferia. Sic transit gloria mundi, come ha dichiarato, il berlusconismo è finito. Era l'ora, dopo diciassette anni.